High Touch

Il blog riapre le sue attività dopo qualche tempo. Attendiamo sempre contributi, soprattutto dagli operatori sanitari che hanno considerazioni personali che non hanno ancora condiviso con altri. Credo che l’opportunità di scambio sia divenuta irrinunciabile ora che, da sempre più fonti, ci arriva un invito all’umanizzazione delle cure. Il dibattito è interessante: ritenete che la professionalità basata sulle prove di efficacia abbia oscurato la dimensione umana degli operatori della salute?

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Il caso del mese. Salvatore.

Iniziamo questo nuovo anno di attività e condivisioni con questo caso. Speriamo che altri colleghi vogliano collaborare al proseguimento delle nostre attività come ha fatto Raffaele inviandoci questa sua testimonianza di cui lo ringraziamo.

 

Salvatore è ricoverato presso il reparto di medicina nel quale presto servizio come infermiere. Il problema epatico di cui soffre si è complicato e di recente ha dovuto sottoporsi a dialisi. E’ allettato. La funzionalità cardiovascolare è compromessa ed è spesso letargico e sofferente. La sua pelle non tollera il massaggio, al quale risponde con una eccessiva vasodilatazione che aumenta il senso di prurito che lo affligge costantemente. Oggi mi ha chiesto di poter essere messo seduto. Prima di tutto ho pensato di sollevare lo schienale del letto e gli ho chiesto di muovere da solo gli arti, anche se in modo approssimativo, per facilitare il cambio di posizione. Salvatore si è stancato ben presto e allora ho praticato su tutti gli arti un leggero encompassing. Appena è stato possibile lo ho assistito nel mettersi a sedere con le gambe fuori dal letto, ma per Salvatore era molto difficile mantenere la posizione. Mi sono seduto sul letto accanto a lui e mentre con una mano lo aiutavo a sostenersi, con l’altra ho praticato una serie di pressioni leggere longitudinali parallele alla colonna vertebrale. Salvatore ha apprezzato moltissimo e, anche se dopo poco è stato costretto a distendersi nuovamente, mi ha chiesto  se sia possibile ripetere l’esperienza domani.

Anche se il tentativo è durato in tutto solo 5 minuti credo di aver fatto qualcosa di utile per lui.

 

Raffaele

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Novità in libreria

L’interesse verso l’umanizzazione dell cure si sta diffondendo in modo confortante. Segnaliamo un altro contributo di Ginestra, Venere e Vignera: Elementi di comunicazione per le professioni sanitarie. L’editore è Franco Angeli. Fateci sapere cosa ne pensate!2720976

Gestidicura

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E condividiamo…

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La foto ci è stata gentilmente inviata da Gianangelo Palo insieme al commento che potrete leggere in calce al precedente articolo a cui si riferisce. Parlando di condivisione ci è sembrato giusto mostravela!

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Condividere l’osservazione.

Riflessioni sulla affettività degli operatori.

 

In occasione di un incontro con gli operatori dell’Associazione Cattolica Operatori Sanitari (ACOS) a Siena ho potuto ascoltare e riflettere su alcune considerazioni fatte sui rapporti interprofessionali che vi riporto. Nonostante i diversi corsi sulla comunicazione e la progressiva sensibilizzazione del personale sanitario al “fattore umano”, sembra che una delle sfide più ardue rimanga la condivisione della interpretazione di un contesto, specie se questa condivisione avviene tra operatori di diversa professionalità. I fattori responsabili di questo difficoltà sono diversi, spesso personali, cosa che li rende a volte inafferrabili. Pur consapevole di tale limitazione, vorrei proporre una serie di ipotesi che mi sembrano argomenti alla cui discussione vorrei invitare tutti i lettori del blog.

Credo che da sempre gli operatori della salute sembrino patologicamente affetti da una mancanza di linguaggio comune che li fa sentire analfabeti quando si tratta di comunicare tra loro. Proprio come nella Babele biblica, sembriamo del tutto a disagio con le parole, a volte arroccati sul nostro lessico di nicchia, a volte convinti di non avere i termini. Reagire al disagio è spesso un viaggio in una sorta di rabbia, per cui ci si deprime e scattano difese che ci spingono a rifiutare il linguaggio dell’altro, o ci si dedica pervicacemente ad evitare qualsiasi gergo che possa apparire professionale. Comunicare non è facile, ci vuole una convinzione che ci spinga sia a renderci comprensibili sia a capire l’altro, oltre il desiderio di sostenere tale convinzione con i fatti. E tutto questo con buona pace di chi crede che lavorare in equipe sia facile.

Dobbiamo ammetterlo, ci mancano le conoscenze metodologiche per poter comunicare in modo efficace ed anche ( perché no?) emotivo. Non credo sia un caso che, come fisioterapista, comunico meglio con i colleghi dei reparti dove lavoro. Là dove mi mancano le conoscenze per comprendere una prassi dell’infermiere tendo a sopperire con l’affettività che deriva dalla conoscenza interpersonale, dalla condivisione dello spazio, del prendersi cura delle stesse persone. Per cui mi avvicino e chiedo con la presenza di chi è amico, di chi vuole capire e non giudicare. Allo stesso tempo, noto che infermieri ed OSS prendono l’iniziativa di chiedere informazioni, chiarimenti che possano rendere le mie azioni comprensibili. Non sottovaluterei questo tentativo di passare affettuosamente al linguaggio logico, anzi, lo vorrei prendere in seria considerazione. Chiamare le cose con lo stesso nome ci predispone a comprenderci meglio, ci aiuta a tradurre una esperienza diretta (fenomeno) in un racconto verbale. Questo racconto è pieno di informazioni, alcune evidenti, altre nascoste dalle pieghe del linguaggio. Credo che tra gli europei noi italiani siamo i più ricchi di significati nascosti tra le inflessioni della voce, tra le parole scelte non a caso, tra le omissioni studiate. Diciamo le cose in modo di raccontare un fatto, ma anche in modo da far capire, sotto sotto, come la pensiamo. Una volta capite le regole del gioco, molti di noi diventano abilissimi, sia a dire che a non dire. Senza criminalizzarci, passiamo a vedere come questo può tornarci utile nel nostro lavoro.

Potremmo ad esempio metterci intorno ad un tavolo, o davanti ad un caffè, e cercare di capire cosa intendiamo quando usiamo alcune parole. Oppure, potremmo cercare di distinguere nel nostro racconto di un fatto, ciò che è stato osservato, da ciò che abbiamo creduto di comprendere. …Molte delle nostre azioni derivano dalla convinzione di aver capito come stanno le cose, quando invece non è così. Altre convinzioni, se non errate, diventano dannose quando antepongono sentimenti personali di conflitto alla decisione più giusta da prendere. Eviterei di pensare che ciò significhi “bisognerebbe essere più buoni”. Mi piacerebbe invece che si potesse pensare a questo come ad un “ci piacerebbe riuscire a voler più bene a noi stessi, alla nostra professione, al malato che si affida a noi”.

Patrizia Brugnoli

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Olio o crema?

In uno degli articoli pubblicati a giugno su questo blog si davano alcune notizie sull’uso dei lubrificanti per facilitare lo scorrimento delle mani sulla pelle durante il massaggio. L’uso dell’olio di mandorle dolci è quello maggiormente diffuso e raccomandato a causa della mancanza quasi totale di controindicazioni o di casi di sensibilizzazione a questa sostanza. Si tratta di un prodotto diffuso al punto da essere spesso non conforme all’uso. Ricordiamo che ogni confezione dovrebbe recare una etichetta con la data di confezionamento, la provenienza e le caratteristiche di produzione, tra le quali la più importante è che sia stato spremuto a freddo. Tuttavia, in alcuni contesti e in base alla insofferenza di alcune persone per le sostanze eccessivamente oleose, abbiamo ricevuto sempre maggiori richieste di informazioni sull’uso delle creme. La caratteristica che una crema da massaggio deve avere è una consistenza sufficiente a dare scorrevolezza, senza essere troppo liquida o diluita. Inoltre, durante il massaggio non deve subire degradazioni e quindi non deve nè prendere un cattivo odore, nè addensarsi in piccoli grumi. I componenti dovrebbero essere del tutto vegetali, ma talvolta anche la cera d’api può essere una base gradevole, soprattutto in quanto offre una buona consistenza. L’addizione di oli essenziali deve ssere valutata con molta cautela, questo non solo per gli effetti indotti dalla sostanza in sè, ma soprattutto per la reazione che potrebbero indurre nlla persona che massaggiamo. Alcune persone non tollerano aromi troppo forti, o troppo dolciastri.

Fateci sapere quali sono le sostanze che preferite ed i vantaggi che offrono nel massaggio, potrebbe essere un argomento dal quale imparare qualcosa in più…

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Il caso del mese. Carla.

Un invito alla discussione.

Carla è una donna non più giovanissima, ma la malattia da cui è affetta la fa apparire più anziana e dolente. Attualmente è ancora degente. La diagnosi è ancora in corso, ma ci sono dei forti sospetti che si tratti di un mieloma multiplo. In questo stesso periodo ha subito un grave lutto per cui ora si trova sola a fronteggiare i cambiamenti e le difficoltà imposte dalla malattia. Il suo stato emotivo è sconvolto non solo dalla situazione obiettiva, ma anche dalla forte influenza che su di esso esercitano le terapie farmacologiche. Le OSS la stimolano ad alzarsi dal letto, ad andare in bagno e, per facilitarle il compito, l’accompagnano. Ma, tornando a letto, lei si infila sotto le coperte, tira il lenzuolo fin sopra la testa e si rannicchia su un fianco, rivolta verso la porta di ingresso della stanza. Quando i medici entrano nella stanza per la visita giornaliera Carla prende la parola, parla molto, piangendo, dichiarando il suo grave disagio. Dal momento che la terapia sta provocando un danno metabolico del sistema muscolare, viene fatta richiesta di un trattamento fisioterapico per rinforzare i muscoli deboli e per aumentare la tolleranza allo sforzo, attualmente molto bassa.

 

Si tratta di un caso del tutto comune per molti colleghi, sia in assistenza domiciliare che in ospedale. Su questo caso desideriamo aprire un forum data la frequenza con cui ci vengono poste richieste di chiarimenti sul lavoro dei fisioterapisti in oncologia anche da parte degli infermieri. Ancora una volta, il forum ed il blog stesso sono aperti solo al personale sanitario e agli studenti dei corsi di laurea per infermieri e fisioterapisti.

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Lesioni ossee da metastasi

Le lesioni da metastasi rappresentano sicuramnte una condizione di grande difficoltà nella assistenza delle persone malate. Stiamo raccogliendo informazioni e consigli: per favore contribuite alla loro diffusione. Nel frattempo, Flavia ci ha segnalato il seguente indirizzo web che vi risulterà veramente interessante: dal sito dell’asl di Lecco

Patrizia

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Il massaggio dei piedi. Ricerca bibliografica

Il massaggio dei piedi viene considerato il più diffuso ed il più praticato dei massaggi. Gradevole e rilassante, per alcune persone gravemente debilitate o a fine vita rappresenta uno dei pochi interventi possibili ed efficaci. La maggioranza della bibliografia sull’argomento riguarda infatti pazienti degenti in area critica, persone in cure palliative e anziani. E’ inoltre disponibile un discreto numero di testimonianze circa l’utilizzo del massaggio ai piedi in pazienti oncologici in trattamento chemioterapico. La motivazione a ricevere in generale un massaggio sta nella mancanza di controindicazioni di un trattamento comunque mirato al controllo di alcuni sintomi come:

  • ansia, tensione, nervosismo;
  • battito cardiaco accelerato per cause emotive;
  • insonnia e altri disturbi del sonno;
  • assuefazione da farmaci;
  • diminuita attività del sistema immunitario;
  • ipertensione;
  • scarso senso del proprio schema corporeo;
  • accumulo di liquidi e metaboliti tossici.

Ma la localizzazione, il massaggio ai piedi, è preferito a causa della disponibilità di questa parte del corpo anche in presenza di supporti meccanici o in caso di condizioni gravemente debilitate. Inoltre i piedi sono spesso sede di edema e di dolore, anche semplicemente dato dall’immobilità.

 

Di fatto il massaggio ai piedi è soprattutto un modo per comunicare vicinanza con una modalità del tutto accettabile, particolarmente significativa per coloro che ricevono limitati contatti umani. Il massaggio ai piedi è inoltre un modo per innescare la fiducia necessaria a sviluppare il legame tra operatore e paziente. Se si tratta di rapporti che dureranno per un tempo prolungato, in un periodo di progressivo peggioramento o disagio, il momento del massaggio può aiutare la elaborazione dei pensieri, sia nel silenzio che nel dialogo verbale. Ciò che viene trasmesso è attenzione, cura, ascolto

 

Setting

L’operatore cercherà di adattarsi a qualsiasi condizione, tuttavia, un ambiente confortevole aiuta il rilassamento, sarà quindi importante allestire la stanza abbassando l’intensità delle luci, controllando che la temperatura sia adeguata  che nessuno possa disturbare il trattamento. Per lo stesso motivo l’operatore preparerà il materiale necessario, evitando di lasciare il paziente per recuperare di volta in volta olio, cuscini, asciugamani, eccetera.

Quando gli odori intensi risultino sgraditi viene consigliato l’uso di creme od oli neutri privi di profumazione. Quando le condizioni lo permettano è tuttavia possibile ricorrere all’uso di oli essenziali diluiti in oli vettore quando l’operatore sia esperto nell’uso di questi elementi.

E’ sempre doveroso descrivere la procedura e i suoi possibili effetti alla persona che verrà sottoposta al massaggio.

 

Preparazione e preliminari

Prima di tutto osservare bene la superficie da massaggiare, sia per evitare di incorrere in condizioni che rappresentano controindicazioni, sia per scegliere la crema o l’olio più adatti alle condizioni della cute.

E’ necessario essere sempre molto attenti all’igiene e quindi prevedere che i piedi possano essere sede di infezione da miceti o altro. Nel caso l’operatore dovrà sottoporsi prima e dopo il trattamento ad una pulizia ancora più accurata.

Si consiglia di detergere i piedi del paziente prima del massaggio con una soluzione medicata diluita in acqua piacevolmente calda. Se la situazione cutanea lo consiglia, è possibile anche usare una crema granulare per asportare lo strato squamoso. Una volta terminato lasciare il piede avvolto in un asciugamano piacevolmente caldo.

 

 

Tempi

Il massaggio di entrambi i piedi richiede circa 20 minuti, ma vanno sommati i tempi di preparazione e di detersione. E’ inoltre possibile che il paziente si assopisca durante il massaggio. Nel caso che non sia stato concordato precedentemente il comportamento, l’operatore dovrà verificare lo stato di coscienza del paziente prima di lasciarlo.

Per aiutare il paziente che accusa nausea e vomito, a volte sono sufficienti 10 minuti, 5 per ogni piede.

 

Particolarità

Lentezza, ritmo cadenzato, adattamento alle condizioni della persona, ai suoi bisogni, al momento del giorno in cui l’applicazione risulta più efficace nei confronti del sintomo da controllare.

 

Procedura

Come per ogni altro tipo di massaggio, è sconsigliabile interrompere il contatto e compiere bruschi cambiamenti di direzione, di velocità o di intensità. La direzione consigliata e disto- prossimale.

E’ bene ricordare che la mobilizzazione della caviglia deve essere cauta, specie se la persona è allettata da lungo tempo. Spesso il dorso del piede è doloroso nelle persone magre ed anziane, quindi lo sfioramento dovrà essere sempre leggero in questa zona.

E’ consigliabile adagiare entrambi i piedi su un asciugamano e coprire con il bordo laterale il piede che non si sta massaggiando in modo che non vi sia dispersione termica.

Per quanto riguarda i movimenti da eseguire, le varie fonti consultate non si distanziano molto l’un l’altra. Alcune risentono della cultura tradizionale locale o degli influssi di altri metodi, come ad esempio, la riflessologia plantare. Le parti costanti sono:

  • stabilizzare il piede durante il massaggio in modo che non subisca una mobilizzazione casuale. E’ possibile stabilizzare la pianta del piede afferrandolo superiormente ed inferiormente con le dita della stessa mano, oppure bloccando con una mano la caviglia,mentre con l’altra si pratica lo sfioramento.
  • Preferire movimenti come lo sfioramento centripeto e la frizione localizzata, purché siano superficiali.
  • Favorire le zone dei malleoli, delle singole dita, dell’appoggio metatarso-falangeo, del tallone.

 

Al termine della sessione l’operatore stenderà un report sul trattamento, segnalando modalità, tempi e risposta da parte del paziente.

 

Diffusione

In alcuni casi gli operatori potranno istruire uno dei care giver all’esecuzione del massaggio, specie se l’orario scelto è incompatibile con la presenza dell’operatore.

 

BIBLIOGRAFIA (in ordine alfabetico)

 

Buckle J. The ‘M’ Technique Physical Hypnotherapy for the Critically Ill. Massage & Bodywork magazine, February/March 2002.

Buckley J. Massage and Aroma therapy massage: Nursing art and science. Int J Palliat Nurs 2002;8:276-80.

Clair L. Body and Sole. Practice and Philosophy of advanced Reflexology Techniques: 1994.

Cole A, Shanley E. Complementary therapies as a means of developing the scope of professional nursing practice. J Adv Nursing 1998;27:1171-6

Deng G, Cassileth BR. Integrative oncology: Complementary therapies for pain, anxiety and mood disturbance, CA career. J Clinic 2005;55:109-16.

Ferrell-Terry A.T., Glick O.J. (1993) ‘The use of therapeutic massage as a nursing intervention to modify anxiety and the perception of cancer pain’. Cancer Nursing, 16; 2: 92-101.

Grealish L, Lomasney A, Whiteman B. Foot massage. A nursing intervention to modify the distressing symptoms of pain and nausea in patients hospitalized with cancer. Cancer Nurs 2000;23:237-43

Harrison A. Getting the Massage. Nursing Times 1986. p. 34.

Hayes J, Cox C. Immediate effects of a five-minute foot massage on patients in critical care. Intensive Crit Care Nurs. 1999 Apr;15(2):77-82

Joachim, Gloria. How to give a great Foot Massage. Geriatric Nursing 1983. p. 29.

McNamara P. Caring touch in Cancer. Int J Aromather Winter 1992;4

Puthusseril V. “Special foot massage” as a complimentary therapy in palliative care. Indian J Palliat Care 2006;12:71-76

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Sims S. Complementary Therapies as Nursing Interventions, Nursing Issues and Research in Terminal Care. Raiman J, editor. John Wiley and Sons Ltd: 1988.

Tappan FJ. Healing Massage Technique: Holistic, Classic and Emerging Methods. 2nd ed. Appleton and Lange: Norwalk, Connecticut; 1988.

Vickers A. Complementary therapies in palliative care. Eur J Palliat Care 1996;3:150-3.

Walton T, (2006) A Study of Foot Massage and Cancer Symptoms. Massage Today, November, 2006, Vol. 06, Issue 11

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Altre riflessioni sulle implicazioni relazionali degli operatori di base.

Gli operatori di base sono consapevoli delle numerose implicazioni relazionali che il loro lavoro comporta: la partecipazione emotiva alla sofferenza e al disagio dell’Altro, la necessità di una riflessione etica costante nella pratica quotidiana, i rischi che possono nascere dalle proiezioni e dalle interpretazioni soggettive delle diverse situazioni, sono solo esempi dell’attenzione che il nostro lavoro richiede.

Credo si possa genericamente affermare che stiamo superando il timore di affrontare la problematica della partecipazione emotiva: abbiamo trasformato un tabù in un bisogno di competenze. Infatti è sempre più diffusa la pratica di buona comunicazione e laddove questa ancora tardi ad attuarsi, si cerca di introdurre una nuova competenza attraverso corsi di formazione.

Tuttavia, ritengo che non abbiamo ancora immaginato dove questa nuova competenza potrebbe portarci: credo che ancora non abbiamo compreso che dalla affettività possiamo imparare un nuovo modo di svolgere con cura il nostro lavoro. Ovviamente mi riferisco ad una affettività matura, gestita nell’ambito assistenziale entro i limiti della adeguatezza al contesto. Porterò un esempio. Durante una lezione ad un corso di formazione per operatori di area oncologica è stato chiesto ai partecipanti di spostare un loro collega seduto sul lettino delle dimostrazioni in posizione supina e di metterlo in modo che si sentisse comodo. Sono stati fatti alcuni tentativi infruttuosi, dopo di ché è stato suggerito ai partecipanti di pensare al loro stesso corpo e di pensare a come essi stessi si sarebbero sentiti comodi. L’esperimento ha portato ad un piccolo miglioramento. Quando invece la consegna è stata: pensate a questa persona con affetto, il successo è stato quasi completo. Non parlo di persone alle prime armi, si trattava infatti di operatori esperti, che da tempo svolgono servizio in reparto di degenza, con casi veramente gravi che riescono a gestire bene. Si tratta di quel genere di operatori ai quali ognuno di noi si affiderebbe volentieri. Eppure, nel contesto formativo hanno dato il loro massimo seguendo dei riferimenti affettivi, ripensando alle persone di cui si prendono cura, seguendo la loro capacità di entrare in una sorta di empatia corporea con questi malati. Questa capacità è secondo me una risorsa di un valore inestimabile che rischia di essere sottovalutata solo perché poco conosciuta e non ben analizzata. Considerare questa abilità una semplice questione di stile personale, un fattore caratteriale inconscio, porta gli operatori a non trasmettere come significativi quei valori e quelle capacità che trasformano un buon lavoro in un lavoro veramente buono.

Chi ha esperienza di formazione nel campo del massaggio e della gestualità degli operatori sanitari, sa che anche senza una particolare sceneggiatura (musica, profumi, luci abbassate…) il clima dell’ambiente si modifica durante il corso. Le voci tendono ad abbassarsi, vengono rispettati spazi e tempi per concedere all’altro di sperimentare la bellezza di un contatto gentile, anche semplicemente diretto ad un trasferimento.

Talvolta scappa la battuta, una risata che ha lo scopo di sollevare alcuni dall’evidente imbarazzo, dalla consapevolezza della forza di questi momenti, dal potere che hanno di farci sentire più uniti, più accettanti e rilassati nei confronti di quegli stessi colleghi che a volte ci fanno sbuffare, che ci irritano o che ci stanno poco simpatici. Ho riflettuto su quale sia il catalizzatore di questi cambiamenti e penso sia la presenza di un riferimento mentale alla persona malata. Credo che il nostro desiderio di svolgere bene il nostro lavoro si trasformi in una realizzazione professionale quando è evidente che la persona malata è soddisfatta dei quello che abbiamo fatto. Personalmente non credo ci sia niente di male, in qualche momento di grave difficoltà, a sopperire alle nostre mancanze con una partecipazione emotiva, anzi, sono convinta che questo possa talvolta aiutarci a trovare la soluzione, perfino quella tecnica, più adeguata.

Patrizia Brugnoli

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Il caso del mese. Giorgia

Da Flavia Bernardi di Nerviano (Mi) riceviamo e pubblichiamo ringraziandola del suo contributo.

 

Giorgia, giovane paziente affetta da 2 anni da un tumore al rene e successive metastasi polmonari, surrenali, epatiche, ossee che le causano una paraparesi per crollo di D10. Le algie sono inizialmente la sintomatologia più importante e con la terapia farmacologica si riesce a controllare il dolore spontaneo ma non quello incidente che emerge ai cambi di postura e nei trasferimenti letto-carrozzina-poltrona. Il medico palliativista richiede l’intervento della fisioterapista per valutare come la paziente si muove, come viene mobilizzata e per addestrare i familiari che la assistono.

Giorgia con un eloquio un po’ rallentato descrive quali siano le posizioni più critiche, parla del dolore posturale, causato dal mantenere a lungo la stessa posizione. E’ paralizzata dall’idea di sentire ancora quelle fitte che le tolgono le poche forze che le restano, che “le tolgono la voglia di vivere”. Sta in decubito laterale destro rivolta verso il centro del letto da una mezz’ora e comincia ad avvertire già un certo fastidio, l’anticamera del dolore è al trocantere destro. La madre preoccupata le chiede se vuole essere girata . Lei vorrebbe stare sulla sua poltrona reclinabile, in salotto, dove si concentra maggiormente la vita sociale della famiglia e non bloccata in quel letto Le propongo di mettere un guanciale fra le gambe flesse e cercando di muovere il cingolo pelvico in parallelo con quello scapolo-omerale, passa alla posizione supina e poi sul fianco sinistro. Così il movimento le sembra un po’ meno doloroso, ma l’astenia generale che la invade la obbliga a riposare un po’.

Approfitto per proporre e fare uno massaggio leggero (lateral movement), uno sfioramento circolare, lento, continuo al trocantere destro, gesto che la paziente gradisce molto: comincia a fidarsi. Dopo una decina di minuti le propongo di mettersi seduta, faccio scendere le gambe dal letto e la aiuto verticalizzare il tronco con moderate algie . Sta seduta da sola con doppio appoggio posteriore e lentamente realizza che forse può tentare di andare in carrozzina. Mi studia, mi accovaccio davanti a lei,  spiego a lei e alla madre come penso di farle fare il trasferimento. Si fidano, viene accostata la carrozzina , tolto il bracciolo e i predellini. Le spiego che non deve andare in piedi, sarà sufficiente piegare in tronco in avanti, appoggiandosi a me, la madre sposta con cautela il bacino dal letto alla carrozzina con un movimento orizzontale e.. già fatto!!!Dopo aver riposizionato bracciolo e predellini, aggiunto qualche cuscino dietro la schiena raggiungiamo l’adorata poltrona. Il trasferimento qui risulta un po’ più difficoltoso e un po’ meno indolore per la presenza dei braccioli fissi . Giorgia è contenta del suo traguardo raggiunto e ricerca una posizione confortevole azionando il comando elettrico. E’ molto stanca e non si sente di fare altro, vuole solo un po’ di benessere per stare in pace nel suo salotto. Quando sembra abbia trovato la posizione giusta le do un po’ più di confort con l’approccio anteriore.

Nei giorni successivi Giorgia controlla sempre meno il tronco da seduta, l’astenia sembra essere il sintomo più disturbante; ogni minimo movimento costa molta fatica, Giorgia accetta di utilizzare un letto articolato che fa mettere in salotto al posto della sua poltrona. Quando arrivo mi dice “ ti aspettavo, ho fame di movimento ma sono troppo stanca per muovermi”. Iniziamo con il care articolare delle principali articolazioni, poi passiamo alla mobilizzazione passiva di tutte le articolazioni, lentamente e poco, quel poco che basta a lei. A volte il sopore la raggiunge prima dell’approccio anteriore.

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Il caso del mese. Paola

Paola è costretta a rimanere a letto, supina per la maggior parte del tempo. Da anni viene curata per un tumore mammario che ora ha dato metastasi ossee vertebrali. Le condizioni generali non sono buone e la malattia sta avanzando rapidamente. La compressione midollare data dal crollo di alcuni corpi vertebrali l’ha resa paraplegica in maniera incompleta a livello D6.

Paola non respira bene perché la meccanica toracica è ostacolata dalle lesioni ossee, dalla posizione supina e dall’aumento del volume addominale, causato da un ristagno di gas intestinali. La peristalsi è presente e vivace, nonostante gli oppiacei. Più volte ci chiede di verificare che le gambe siano sul piano del letto perché non ne avverte la posizione e ha paura di cascare. Per questo motivo al letto sono stati posti dei cancellini.

 

Dal punto di vista del tocco abbiamo proposto un touch in ascolto a livello del colon che la signora può eseguire in autonomia. Il contatto viene mantenuto fino a che Paola non avverta lo spostamento del gas. I punti di contatto vanno a ritroso da sinistra verso destra.

Per quanto riguarda gli arti, abbiamo insegnato ai parenti ad eseguire un comfort touch (encompassing) con una pressione ferma ma attenta. Questa tecnica comporta infatti la sensazione di maggiore presenza della parte del corpo alla quale viene applicata, ma allo stesso tempo reca molto conforto e dà un contenimento che alle persone piace molto perché si sentono accudite.

Non abbiamo proposto il massaggio addominale, né tantomeno quello agli arti, perché abbiamo avuto il sospetto che la compressione midollare stia scatenando i riflessi sottocorticali e temiamo che lo strocking possa causare una risposta in contrazione che può essere dolorosa e in certi termini anche pericolosa.

 

Ogni tipo di intervento deve comunque essere rivalutato nel tempo e modificato al cambiare delle condizioni della signora.

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Scambi e condivisioni

Lo scorso fine settimana, in occasione di una condivisione del nostro materiale con alcuni operatori di Udine, abbiamo avuto la possibilità di riflettere su alcuni argomenti strettamente connessi al tocco. Prima di tutto si è avuta la conferma che infermieri e fisioterapisti sono molto interessati ad aprire le proprie prospettive professionali. Non ci interessa più solo lo svolgimento di un lavoro ben fatto, ma siamo sempre più disponibili ad una modificazione dei nostri abituali modelli, sia in senso organizzativo che in senso creativo. L’uso del contatto per lenire il dolore, o per facilitare la comunicazione non ci basta più. Sentiamo sempre più il valore di un coinvolgimento giornaliero con le persone malate e l’importanza di aiutarle non solo ad avere meno sintomi, ma a sentirsi sempre più persone, vive e identificate. Questa tendenza è molto sentita anche all’estero e, per chi fosse interessato a partecipare ad altri blog, ne segnaliamo alcuni ai seguenti link:

http://community.advanceweb.com/blogs/nurses7/archive/2008/07/22/male-nurses-and-the-caring-touch.aspx

 

http://allnurses.com/forums/f300/human-touch-332180.html

 

 http://nursingtheories.blogspot.com/2008/07/jean-watsons-theory-of-human-caring.html

  

http://include.nurse.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/20080811/CRT02/308120015

 

 http://www.massagemag.com/massage-blog/stillness-motion/

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Massaggio ai piedi

Gesti di cura sta raccogliendo il materiale accessibile sull’utilizzo del massaggio ai piedi. Il contesto è ovviamente quello sanitario, dalle terapie intensive ai reparti di degenza breve o prolungata, alle esprienze domiciliari. Inviateci il vostro contributo, sarà pubblicato alla fine del prossimo mese!

Grazie

Inviate i vostri scritti all’indirizzo mail: gestidicura@libero.it

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Osservando il gesto 1.

La convinzione etica che ci predispone all’ascolto e alla sospensione di giudizio ci permette di collocarci anche come osservatori di un contesto relazionale.

Da tempo molti operatori hanno abbracciato il presupposto che ogni interpretazione possa essere viziata dalle aspettative e dalla forma mentale di chi osserva[1]. Le variabili che danno significato al movimento di una persona dovrebbero innescare una serie di riflessioni riguardo il contesto spaziale ambientale in cui agisce, la relazione od il legame che l’osservatore ha instaurato con lui ed altre ancora. Ma prima di tutto, viene ritenuto necessario darsi tempo, tempo di verificare, di osservare meglio, di dubitare.

Ognuno di noi sa che una certa identificazione è necessaria per cercare di comprendere l’altro, ma perdere il senso del confine nelle relazioni d’aiuto comporta alcuni problemi. Il mantenimento dei reciproci confini aumenta la capacità di apprendere da parte dell’operatore, che può permettersi di continuare a sentirsi empatico con il suo paziente ed a portare il suo contributo professionale non abbandonandosi alle sue istanze emotive personali. La fiducia che il rispetto di questa regola comporta conduce ad un tacito accordo, ad una sottointesa alleanza tra i due poli della comunicazione, che quasi sempre coincide con il successo del rapporto stesso.

Tutto ciò si riferisce ad un modello teorico, ma può assumere toni un po’ più realistici se consideriamo il fattore delle interferenze all’interno di una comunicazione. Il rumore che più raramente tendiamo a considerare è la nostra stessa mancanza di serenità: la confusione tra le nostre necessità psicologiche e quelle del paziente, tra motivazioni soggettive e realtà.

“Il problema dell’osservazione è un complesso problema conoscitivo e, al tempo stesso, un problema di maturazione emotiva legato alla vita di relazione”(A. Di Carlo,1984)

 

L’osservatore può apprendere dalla riflessione sulla propria esperienza mentre osserva in silenzio e in ascolto dell’altro, ma non solo. La consapevolezza che la propria osservazione è comunque soggettiva, permette di mutare il proprio atteggiamento da intrusivo in accogliente, da inglobante a partecipante.

Si tratta di un processo che coinvolge l’osservatore, l’osservato, e non solo: permette di cogliere la realtà relazionale inserita nel suo contesto ambientale perché anche l’ambiente diviene oggetto di osservazione. Le sue componenti possono essere percepite per quanto risvegliano nell’osservatore, che ne riconosce l’importanza, la capacità di impatto su di lui, sul paziente, sulla relazione.

Osservare è imparare anche a tollerare certi livelli di ansia, di impotenza, di attesa che questo processo comporta.

Chi osserva in questo modo acquisisce delle capacità di accettazione, di autocritica, di dubbio e di attesa che meglio si accordano secondo noi ai principi etici di solidarietà e alla professionalità di un operatore sanitario.

Questo modo di partecipare alla realtà comune stabilisce tra l’operatore e la persona malata una sorta di sodalizio che si riflette anche sull’operatore come apportatore di emozioni e di valori.

Imparare ad osservare è quindi una questione di etica, di preparazione e di competenza professionale.

Ciò che è stato finora esposto risulta valido in particolare per tutti quei casi di trattamento che utilizzano tecniche corporee. Il contatto fisico permette infatti un dialogo immediato, privo di sovrastrutture culturali e quindi inconsciamente emotivamente coinvolgente.

Dato l’impatto che questo tipo di approccio può avere sull’operatore è consigliabile sottoporre le proprie osservazioni ad una supervisione. In tale sede sarà possibile condividere anche le proprie riflessioni sulle proprie sensazioni durante l’osservazione.

E’ importante distinguere i livelli di profondità dell’osservazione, ed è soprattutto importante non confondere quello che si crede di vedere con la realtà effettiva del fenomeno.

 


[1] Cfr. F.Borgogno, 1981.

 

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Osservando il gesto 2

Fino ad ora abbiamo privilegiato la razionalizzazione delle osservazioni e delle loro interpretazioni solo in base a quanto potevamo vedere e ascoltare uditivamente. La ragione è il tentativo di percorrere a ritroso una strada che ci porti con maggiore consapevolezza a verificare l’importanza del tatto e del contatto fisico.

Il tatto è il primo senso a svilupparsi e il contatto è il primo veicolo di una comunicazione affettiva: fornisce protezione, dà la sicurezza di non essere soli ed è la prova della nostra identità in quanto soggetti sensibili, oggetto di cura e di amore. Esattamente all’inizio come alla fine della vita e in tutti i momenti critici della nostra esistenza, il tatto crea quel senso di sicurezza che ci permette di staccarci per andare incontro all’ignoto[1].

Il contatto è la prima esperienza di relazione[2] con l’ambiente esterno: esiste qualcosa che non siamo noi, quindi anche noi esistiamo, ci sono cose morbide e cose dure e un mondo di cose che provocano o non provocano piacere o danno dolore. C’è un confine tra noi e il mondo. Questo confine è composto dalla pelle e da uno spazio che noi giudichiamo personale e di cui abbiamo bisogno per vivere armonicamente.

Il testo di riferimento più accurato e conosciuto sul tatto rimane tuttora quello di Ashley Montagu (prima tr.it.1975) che risale ormai a qualche decennio fa. Più recentemente le diverse scuole psicologiche, etologiche e filosofiche si sono interessate del tatto prevalentemente come categoria cognitiva secondaria nei confronti della vista, e mancano grandi riferimenti all’esperienza tattile delle cure manuali se non in chiave di sviluppo. Dagli esperimenti sui primati di Harry Harlow (1959) ad oggi, esistono solo pochi studi di conferma (ovviamente a posteriori![3]) sul fatto che la stimolazione tattile sia fondamentale anche per i neonati umani. Mazzeo (2003lamenta tale mancanza e sostiene al contrario che il tatto sia l’organo di senso fondamentale non solo per lo sviluppo del singolo individuo, ma anche per l’organizzazione affettiva e sociale umana. Il suo interessante lavoro è utile inoltre per la rassegna della bibliografia sull’argomento che mostra qualche interesse anche per le nostre considerazioni. Per l’Autore, infatti, la sensibilità tattile si distingue in somatoestesia, senso passivo di ricezione degli stimoli diffuso su tutto il corpo e manualità aptica, percezione attiva e manipolativa che ci mette in relazione con l’ambiente in cui viviamo. Considerando la nudità persistente del corpo dell’uomo confronto a quello degli animali, e quindi anche la sua fragilità, egli ha dovuto sviluppare la capacità di prendersi cura dei propri piccoli e di modificare l’ambiente e costruire manufatti per poter sopravvivere. In questa direzione, ma in modo estremante tecnico, vanno gli studi di Susan Lederman e Roberta Klatzky del 1987[4], che hanno rilevato che il tatto manuale è particolarmente adatto alla percezione della tridimensionalità. Le Autrici distinguono un sottosistema sensoriale, deputato alla percezione di caratteristiche tattile, termiche, nocicettive e cinestesiche, ed un sottosistema motorio- manipolativo, tra loro distinti ma interdipendenti. Il primo sottosistema entra in contatto con l’oggetto/ambiente, il secondo lo esplora secondo una serie di tecniche manipolative denominate procedure esplorative. Le principali tecniche esplorative sono:

·         movimento laterale: consiste nello strofinamento delle dita su un’area omogenea dell’oggetto per percepirne la tessitura,

·         pressione: le dita e il palmo premono una parte dell’oggetto per verificarne la consistenza e la durezza;

·         contatto statico: è quello che facciamo per percepire la temperatura di un corpo;

·         presa senza sostegno: l’oggetto nella mano viene soppesato, includendo l’attività di tutto l’arto superiore;

·         chiusura (enclosure): con cui la mano avvolge l’oggetto per percepirne dimensioni e forma;

·         seguire il contorno: è un movimento complesso con cui una delle mani tiene l’oggetto (chiusura) e l’altra ne segue il contorno (movimento laterale);

·         prova di movimento parziale:tende a verificare i rapporti tra eventuali parti mobili che costituiscono l’oggetto;

·         prova funzionale:la mano cerca una funzione specifica alla quale l’oggetto sia deputato.

La pressione è la tecnica più specializzata, mentre la chiusura è quella più generica e versatile.

Se ci soffermiamo a riflettere sui movimenti, potremmo quasi distinguerne l’utilizzo all’interno dei nostri gesti operativi e di contatto. Ma per proseguire il nostro discorso è ora necessario trasferirci sul versante professionale.

 

Bibliografia

Borgogno F.(1981) Borgogno F. L’illusione di osservare. Giappichelli,

 

Di Carlo A.(1984) Di Carlo A., “Osservazione e apprendimento” QUADERNI DI PSICO-TERAPIA INFANTILE,n°4 Borla,

 

   Harlow, H.F. (1959) ”Love in infant monkeys”. In: Scientific American, 200, pp. 68-   74.

 

      De Hennezel M.(2002) M. de Hennezel la dolce morte. Ed BUR,Supersaggi,   Mazzeo M   Mazzeo M.,.(2003)   tatto e linguaggio. Editori riuniti, Roma   

Montagu A.(1989) Montagu A., il linguaggio della pelle, Ed.Vallardi, 1989.

 


[1] Come dice Marie de Hennezel nel suo libro La dolce morte, vedi bibliografia.

[2] Se riflettiamo sulle nostre esperienze in cure palliative, ci sembra quasi che, alla fine della vita, il percorso venga coperto al contrario.

[3] Harlow separava le piccole scimmie dalle madri e le metteva isolate in gabbie contenenti surrogati materni inanimati. Le scimmie con madri costruite in filo metallico mostravano problemi affettivi e di comportamento(!!!)

[4] Riportato da M.Mazzeo, 2003

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Il caso del mese. Giovanna

Giovanna è una donna non più giovanissima che conserva una tenacia e una voglia di vivere che traspare dalla sua aggressività, il suo interesse vivace per ciò che succede al di fuori della sua stanza da letto dove è confinata per la maggior parte del suo tempo, tempo breve. Il dolore accusato viene controllato dopo vari tentativi resi difficili dall’intolleranza di Giovanna verso le sostanze che le procurano sonnolenza od eccessiva astenia. L’infermiera referente del caso segnala la signora alla fisioterapista sia per i problemi dati dalla debolezza che per le difficoltà che Giovanna manifesta nel mantenimento delle posizioni obbligate e l’incapacità di assumerne di più funzionali.

Giovanna non ha metastasi ossee, anche se soffre per le ripetizioni multiple del tumore polmonare per il quale ha subito una lobectomia superiore destra per via toracotomica quasi un anno prima dell’incontro con la fisioterapista. Il torace non è approcciabile in alcun modo. A Giovanna non viene chiesto di spogliarsi, rispettando quella che sembra una sua grande preoccupazione. Dall’intervento toracico in poi non si è mai affrancata dal sostegno di una fascia elasticizzata, anche se questa le comprime le coste e le rende più difficile la ventilazione. Viene scelto un contatto indiretto chiedendo a Giovanna di toccarsi il braccio e poi la spalla omolaterale alla lesione. Le viene insegnato come toccare, con lentezza e pressione, nello stesso modo che utilizziamo per lenire il dolore da immobilità. Nel corso delle sedute successive, Giovanna arriva a toccarsi lo sterno e poi all’addome ed infine al seno destro. E’ stupita di riuscirci: non si era mai più toccata il lato destro del corpo dal giorno dell’intervento. Progressivamente guadagna la posizione seduta e poi quella eretta che le permette di girare per casa, controllare lo stato di salute delle sue piante e i procedimenti con cui la figlia cucina l’arrosto.

Il giorno in cui è evidente che può fare questo da sola, Giovanna chiede alla fisioterapista di tornare a letto e di riprendere il lavoro sui tessuti del torace. Le parestesie che hanno risvegliato la sensibilità sopita della zona devono essere guidate verso una sensibilità più tollerabile, ma è contenta di essere tornata a percepire il suo corpo. All’improvviso piange: dice di non poter accettare la ferita che a quasi un anno dall’intervento è ancora rossa e che le deturpa il corpo ed anche lo spirito. Non riconosce più il suo corpo e talvolta nemmeno i suoi pensieri, ma il lavoro sul corpo la sta ridisegnando come se potesse incollare tra loro i pezzi del suo corpo ferito.

La fisioterapista insegna a Giovanna altri modi di usare le mani e di toccare con cura la sua parte ferita, solo che questa volta glielo dimostra direttamente proprio su quella parte che prima era inavvicinabile, anche se rispettando la presenza della maglietta di cotone. La signora inizia e poi, stanca, fa continuare l’operatrice che smette solo quando Giovanna glielo chiede. Per tutto il tempo rimane concentrata e non si assopisce, chiedendo ogni tanto alla fisioterapista di dirle cosa sta toccando.

Al termine dell’esperienza la signora parla del suo carattere, del suo sentirsi se stessa di nuovo, anche se ferita, anche se costretta sempre più a trovare conforto nei farmaci antidolorifici che ora tollera con più serenità.

 

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Il movimento e il gesto. 2

Gli studi della psicologia dell’ultimo secolo inerenti il legame tra sensibilità cutanea, relazione e linguaggio sono particolarmente interessanti. Lo psicologo Marco Mazzeo (2003) ha ben riassunto le diverse posizioni assunte dalle scuole cognitiviste, comportamentiste e gestaltiche. Nel suo testo vengono riportati i principali studi sulla sensibilità tattile e le diverse teorie filosofiche sulla presenza dell’essere umano al mondo e nell’ambiente. In particolare l’autore attribuisce alla nascita prematura dell’essere umano e alla sua fondamentale debolezza e scarsa specializzazione alla sopravvivenza non solo l’alta versatilità manuale, ma anche la nascita dell’affettività, della socialità, del linguaggio e della cultura. Inoltre, il carattere riflessivo della somestesia, favorito dalla nudità della pelle, sarebbe responsabile della capacità empatica di leggere negli altri proprie esperienze corporee. Attraverso il contatto manteniamo un legame con il mondo e con gli altri. Il contatto tra le persone e tra le persone e le cose è sottoposto a criteri di accettabilità sociale. Infatti, il concetto di contatto è in stretta relazione con il concetto di spazio e con quello di distanziamento, o prossemica, che definisce la dimensione che ognuno ritiene indispensabile per le relazioni sociali, per mantenere la dignità della propria immagine, per la comunicazione di diversi tipi di immagine (professionale, di ruolo, nei rapporti affettivi…). Ad esempio: la vicinanza da tenere in un colloquio dipende dal rapporto che abbiamo con il nostro interlocutore, lo spazio che occupiamo in un ascensore dipende dal numero di persone che lo occupano nello stesso momento, il modo in cui posiamo una borsa dipende se la stanza è nella nostra casa, o in una stanza d’albergo, o a casa di altri, etc… Queste leggi del vivere sociale sono talmente radicate da essere diventate inconsapevoli e sono valide fino alla morte per ognuno di noi (T. Hall,1982).

Ciò ci riporta alla necessità avvertita dagli operatori sanitari di parlare del gesto  stabilendo un codice che non solo descriva le nostre azioni, ma le colori del loro significato affettivo ed etico.

Per lungo tempo è stato considerato inopportuno parlare con altri di questi argomenti al di fuori dell’ambito poetico, veniva anzi considerato inappropriato porsi domande sui propri sentimenti e fare considerazioni esistenziali che scaturiscono dal momento del contatto. Le implicazioni moralistiche ed i tabù sociali hanno portato anche gli operatori sanitari a nascondere pensieri, scoperte e pratiche manuali sviluppate nella tacita consapevolezza di saper toccare chi soffre. Mentre le esperienze lavorative, affinando le osservazioni, ci hanno portato a costruire un nostro proprio patrimonio tattile e ad acquisire uno stile personale, questa qualità è stata purtroppo a lungo attribuita al buon senso e ritenuta avulsa dalla competenza professionale tecnica rispetto alla quale godeva di minore dignità.

Considerare un tale patrimonio di conoscenze un fatto privo di importanza, come facessimo la cosa giusta perché dotati di un particolare gene del tatto, porta il tema su un terreno che tende erroneamente a separare l’esperienza dalla professione. Il silenzio ha a lungo svalutato un patrimonio da cui è ora possibile apprendere.

 

Bibliografia

Hall T., La dimensione nascosta, Bompiani, 1982.

Mazzeo M.,Tatto e linguaggio. Editori riuniti, 2003

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Il movimento e il gesto. 1.

Osservando il movimento umano, possiamo affermare che il gesto, la posizione o l’azione agiti nel corso di una relazione, costituiscono la più significativa espressione della complessità del vissuto di una persona, ne manifestano le caratteristiche motorie, intellettive e psichiche, e richiamano l’interesse dell’osservatore, proprio perché riguardano le basi culturali dell’uomo e si esprimono in linguaggio comprensibile tra le persone di un medesimo gruppo culturale.

Il movimento riesce spesso a comunicare e a far riconoscere l’appartenenza ad un diverso gruppo sociale o etnico, la personalità, il livello intellettivo, l’orientamento etico e altre caratteristiche di quella persona.

Gli aspetti comunicativi e simbolici del movimento e del gesto sono particolarmente sentiti ed elaborati nelle culture primitive, come lo furono in passato anche nella nostra cultura occidentale. Nella storia si nota infatti lo sviluppo di una codificazione del gesto e del movimento in rituali dal significato convenzionale. Fin dai precetti dell’antica arte retorica romana, il gesto fu ritenuto un fattore non solo degno di studio, ma anche di una precisa normativa. Dal IV all’XI secolo, la cultura cristiana che andava emergendo e consolidandosi, impose prima la censura e quindi la stretta osservanza della ritualizzazione come raccomandato dai Padri della Chiesa (San Girolamo, sant’Agostino, san Gregorio Magno, sant’Ambrogio). L’esigenza di diffondere un nuovo codice morale ed un nuovo lessico gestuale che rispondessero ai precetti religiosi, attribuì alle rappresentazioni pittoriche e plastiche  del divino l’unica dignità della ieraticità, dell’eterna onnipotenza e quindi dell’immobilità. Il gesto era già da allora visto come comunicazione dei movimenti dell’anima, ma soprattutto come identificazione di una natura umana, che si intendeva invece mortificare o, comunque, sottoporre a disciplina. Dal XII secolo inizia la rivalutazione culturale del gesto, anche se ancora fortemente normato secondo il contesto: nei rapporti diplomatici, ad esempio, un cerimoniale non ambiguo poteva mostrarsi di una certa utilità quando la differenza tra fare oppure no un certo gesto poteva valere la testa di chi lo compiva (J.C. Schmitt, 1990).

Il significato di queste liturgie non è del tutto scomparso nei secoli: secondo le ipotesi di studiosi di antropologia (C. Levi Strauss,1966), sembra perfino che l’uomo contemporaneo si attenga tutt’oggi a rituali gestuali che appartengono agli albori della nostra storia culturale, pur svuotati del significato originario. Alcuni di questi sono così ancestrali da poter essere addirittura rintracciati nel comportamento animale (K. Lorenz 1952, D. Morris 1990).

Oltre a questo bagaglio gestuale espressivo e comunicativo ereditato dalla specie e dalla cultura del suo gruppo, ognuno di noi possiede un codice motorio personale, che viene costruito durante il proprio sviluppo, che è legato alle sue caratteristiche biologiche ed alle sue esperienze affettive, come una sorta di stile che lo distingue e lo identifica (A.Berthoz 1998). Tanto che laddove viene richiesto l’annullamento delle istanze personalistiche, ad esempio nelle attività militari, è necessario che i movimenti siano omologati.[1] Quindi, tale codice è personale, è del tutto caratteristico di una persona ma può modularsi a scopo comunicativo e relazionale.

Uno degli aspetti che per noi riveste maggiore rilevanza è che la trasmissione dell’eredità gestuale, come lo sviluppo personale dello stile motorio rimangono essenzialmente inconsci. Essi sono il paradosso visibile e inconsapevole della nostra personalità. Le modalità espressive sono oggetto di studio ed interpretazione in diverse scienze, come la storia, l’antropologia, l’etologia, ma anche la filosofia e la psicologia tese ad interpretare il significato dell’espressività gestuale della comunicazione verbale e di quella affettiva nel rapporto tra l’uomo, l’ambiente e il mondo.

 

 

Bibliografia

A.Berthoz (1998)  Il senso del movimento. McGrow-Hill

C. Levi Strauss (2008)  Il crudo e il cotto, Saggiatore.

K. Lorenz (1994)  L’anello di re Salomone, Adelphi

D. Morris (1990)  La scimmia nuda. Ed.Bompiani tascabili,1990

J.C. Schmitt (1990)  Il gesto nel medioevo, Laterza


[1] Ma anche nei regimi o, in contesti da noi più comuni, quando si diffonde un comportamento che ci rende socialmente accettati.

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Il gesto di cura e le posizioni obbligate

Il dolore posturale è un concetto conosciuto in base all’esperienza: chi di noi può tollerare di rimanere per ore nella stessa posizione, anche se scelta liberamente tra le più comode? Per non parlare delle estenuanti fatiche turistiche durante viaggi o visite ai musei, che ci impongono un ritmo non personale e ci costringono ad uno spazio da condividere con altre persone, e quindi obbligato.

Trasferiamo ora questo senso di disagio immaginando come può tradursi per la persona allettata: posizione fissa, acquisita passivamente, mantenuta per periodi lunghi, modificata con ritmi non personali e in uno spazio limitato, gestito da altri.

L’immobilità, l’inadeguatezza delle riserve metaboliche, l’ansia e l’impossibilità di controllare il proprio corpo o l’ambiente, generano un disagio profondo, un dolore da posizione, aggravato dalla necessità di mantenerla obbligatoriamente.

Per la persona con stato avanzato di malattia, allettata e con impossibilità di eseguire movimenti, di solito riteniamo più adatto un approccio più lento o anche semplicemente più cauto. Queste persone hanno paura del dolore e l’aspettativa di venire spostati genera sempre ansia e contrazioni di difesa. Per non attivare tali reazioni è fondamentale avere un approccio più attento, accompagnato da una comunicazione adeguata.

Anche il tono delle nostre mani, inteso come forza espressa nel contatto, deve potersi modulare secondo le superfici e i tempi del movimento. Fino a che non meriteremo la fiducia della persona di cui vogliamo prenderci cura ogni tentativo tenderà a provocare dolore.

La posizione supina è quella maggiormente riscontrata nelle persone allettate: consente alla persona di controllare visivamente l’ambiente, di comunicare con le espressioni del volto e di essere controllata a sua volta. Per qualsiasi funzione sociale e per il momento dell’eventuale alimentazione, in cui si provvede a sollevare il busto e la testa, la persona si presenta frontalmente nella maggioranza delle situazioni.

Lo svantaggio presentato da tale posizione è che l’attenzione si focalizza sulla parte anteriore del corpo, mentre il dolore viene quasi sempre riferito alla parte posteriore. Ciò va ricordato in particolare quando la persona non fosse in grado di comunicare e fosse tenuta su un presidio antidecubito.

Personalmente, utilizzo un modello di approccio alla persona supina che mantenga presente anche la parte posteriore del corpo e faciliti non solo gli appoggi al piano del letto, ma anche preparare la persona ad altre eventuali pratiche inducendo un certo rilassamento.

I cingoli vengono accompagnati agendo alla radice degli arti: una mano si introduce cautamente tra le spalla, o l’anca della persona stesa e il piano di appoggio mentre l’altra contiene leggermente l’articolazione. Quando l’operatore avverte la pressione tipica dell’abbandono significa che la persona è pronta per farsi posizionare. A questo punto la mano sottostante traziona leggermente verso l’esterno i tessuti con cui è entrata in contatto, riadagiando la zona sul materasso. Si tratta di un gesto semplice, reso complesso unicamente dalla capacità che l’operatore deve acquisire per avvertire le pressioni ed i tempi in cui può essere compiuto.

A questo riposizionamento possono seguire altre manovre, come ad esempio il massaggio.

Al contrario, se preceduto da tecniche di desensibilizzazione, può consentire un rilassamento preparatorio al sonno o all’azione del farmaco analgesico o sedativo.

 

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